CRISI DELL'AUTO / VIAGGIO NELLA PROTESTA DEGLI OPERAI SICILIANI

 

I padroni della rivolta

Politici. Sindacalisti. Preti. E persino prefetti. Tutti a Termini Imerese lottano contro la Fiat per mantenere i posti di lavoro. Ma qualcuno ci marcia. Così.
di Marco Lilló

Succederanno cose brutte, dice don Ciccio Anfuso, arciprete di Termini Imerese. «Qui siamo di fronte a un terremoto e i politici non l'hanno ancora capito». Se il terremoto è la crisi della Fiat e l'epicentro è a Termini Imerese, l'epicentro dell'epicentro si chiama Bienne Sud.

Cinquecento metri prima dello stabilimento Fiat presidiato con striscioni e gazebo in un'atmosfera familiare, dagli operai e dalle loro mogli, c'è il capannone di questa fabbrica dell'indotto. Qui l'atmosfera è diversa. Niente televisore sotto la tenda a richiamare il focolare domestico con l'immancabile tv a colori alimentata dal generatore della Protezione Civile. Niente disegni dei bimbi a raffigurare un cielo azzurro e un'automobilina che vorrebbe essere una Punto con dentro tante belle cose e sotto scritto: «Fiat uguale lavoro. Lavoro uguale vestiti-pane-figli». Alla Bienne i ragazzi hanno gli occhi rossi di chi non dorme da un mese e non ha il coraggio di "taliare" gli occhi della figlia a cui non ha comprato il regalo di San Martino come usa da queste parti. Per capire cosa li aspetta, politici e manager, dovrebbero guardare negli occhi questi ragazzi illusi e delusi, infiammabili come un cerino e senza più nulla da perdere.

Avv. Antonio Battaglia, il senatore accusato di associazione mafiosa dal collaboratore di giustizia, GiuffréA Termini, "Bienne" vuol dire Battaglia. Antonio Battaglia, il senatore di Alleanza Nazionale è il padre di questa fabbrica di paraurti e di sogni nata due anni fa. Quando un imprenditore del nord decide di tentare l'avventura si appoggia al parlamentare del collegio. È lui a curare le pratiche dei finanziamenti regionali e soprattutto a scegliere i ragazzi. «Certo, li ho raccomandati tutti io», conferma con l'orgoglio di chi sa cosa vuol dire portare lavoro in una terra dove la disoccupazione, nonostante mamma Fiat supera il 25 per cento. Battaglia fa assumere centinaia di ragazzi, alternando contratti a termine di tre-sei mesi a periodi di stop. Li fa iscrivere al sindacato di destra, l'Ugl, portandolo al record storico, poi ne smista un po' alla Cisl, che da tempo va a braccetto con i finiani, non solo a Termini. Ma i comunisti della Fiom no, con loro è meglio non parlare. Tanto c'era lui a risolvere ogni problema. Quando l'anno scorso un lavoratore rischiava il licenziamento e minacciava di buttarsi giù dalla torre più alta il senatore, che è un avvocato penalista, ha interrotto un'arringa a metà per risolvere da par suo la vertenza. Grande affabulatore, elegante, sposato con la farmacista del paese, Battaglia è il tipico notabile siciliano che sa fare politica. La sua segreteria funzionava meglio di un'agenzia interinale. Alle elezioni i 100 che lavoravano, quelli rispediti in panchina ad aspettare un fischio e i tanti a cui era stato promesso un interessamento, hanno votato compatti con le loro famiglie. Prima di produrre migliaia di paraurti per le Punto, la Bienne ha prodotto altrettanti voti per il partito di Fini. Primo indiscusso alle politiche. Tutti lo ascoltavano come un oracolo.

«Balle», diceva il senatore quando quei comunisti della Fiom-Cgil hanno cominciato a parlare di crisi. I ragazzi intanto si sposavano e facevano figli. E ora sono proprio loro, i giovanissimi "patri di famigghia" della Bienne, l'avanguardia della protesta. Non perdono una manifestazione, una notte, un presidio e sono tutti iscritti alla Fiom. Quando il senatore Battaglia è intervenuto nella seduta aperta del consiglio comunale dedicata alla crisi, ha dovuto subire l'onta del lancio delle uova. I ragazzi della Bienne sono disperati. Se Fiat chiude il 2 dicembre, come annunciato dal piano industriale, il padrone può dichiarare fallimento e addio cassa integrazione. Nel Titanic della Sicilfiat, la Bienne è la terza classe. Questo mese come altri 1.800 operai Fiat e altrettanti nell'indotto, non avranno una lira in busta paga per lo sciopero. Da dicembre, se non arriva la cassa integrazione, saranno senza rete. Stesso destino per i ragazzi delle pulizie e delle manutenzioni. Nella seconda classe troviamo i commercianti. Basta fare un giro il sabato nel corso di Termini bassa, un tempo affollato di macchine in doppia fila cariche di sacchetti pieni di stivali e telefonini per toccare il baratro. Stanno tutti sulla porta e si guardano con lo sguardo perso nei conti. «Qui si spende sotto le feste dei morti e di Natale. L'anno scorso ho fatto 50 milioni di lire di scontrini», dice Loredana Ardizzone, gioielliera, moglie di un operaio a termine della Bienne ora emigrato a Milano. «Quest'anno non arriviamo a dieci milioni di lire», racconta. «A gennaio chiudo e vado a fare la commessa a Milano». Due vetrine più avanti c'è il laboratorio del fotografo dei matrimoni di Termini. «Ne hanno cancellati già cinque», racconta Vincenzo Boscarino consultando la sua agenda, «non c'è futuro. Io ho già preso contatto con uno studio di Buccinasco, vado a fare l'emigrante a cinquant'anni». Il supermercato Interspar, a due passi dallo stabilimento aveva sette casse ora ne ha una. Il centro Cascino, dove si compravano televisori e hi-fi ha licenziato cinque addetti. Giuseppe Antico, operaio dell'indotto, due bambini di otto e tre anni racconta: «Non esco più perché non me la sento di dirgli di no se chiedono un gelato. Il più grande ha capito tutto. Gli dico che non c'è problema, poi mi chiudo in stanza e piango».

Amuninne, fuggiamo via è la parola d'ordine. E quelli che se ne vanno sono i migliori. Nella prima classe della Sicilfiat stanno i 1.800 lavoratori della Fiat Auto e quelli delle aziende più grosse dell'indotto "ceduti" a società del gruppo come Magneti Marelli e Comau o a grandi multinazionali come la Lear. Avranno certamente la cassa integrazione ma questo non li salva dalla povertà. Perché è questa la parola adatta per descrivere la situazione di Francesco Conte, operaio della Lear, finora quasi benestante: «Su quattro fratelli, non si salva nessuno. Io lavoro alla Lear e vado in cassa integrazione, un altro era alla Bienne sud, un altro è già stato licenziato dalla sua ditta di manutenzioni e un altro è disoccupato. Tutti abbiamo famiglia e non c'è una lira in banca. Al Banco di Sicilia confermano: «Ci sono 800 conti correnti di operai, e la metà ha dei prestiti o dei mutui. Rispediamo le pratiche alla centrale, chiedendo di non aggredire il patrimonio, che tanto non c'è nulla da aggredire».

Il ministro Antonio Martino dice che sono le regole del mercato. Che un'azienda deve essere risanata anche a costo di sacrifici. Ma a Termini Imerese non c'è mai stato il mercato. Neanche nella Fiat. Anzi nella Sicilfiat. La Regione contribuì all'investimento acquistando il 40 per cento della Sicilfiat. Quattro mesi dopo l'avvio della produzione Fiat incassò tutte le quote senza pagare una lira. Non c'è mai stato mercato nemmeno nella selezione del personale. Con il collocamento comandavano i sindacalisti. A tirare le fila erano Cisl e Uil, ma anche la Cgil ha partecipato alla gestione del potere. Poi, abolito il collocamento, il pallino passò nelle mani dei capireparto. E non c'è da stupirsi allora che il clima aziendale fosse narcotizzato.

A settembre la Fiom-Cgil aveva avuto sentore della chiusura e aveva proclamato lo sciopero. Il rappresentante della Fim-Cisl, Giuseppe Vuono ha fatto distribuire ben due volantini contro la Fiom dei catastrofisti. Lo sciopero è fallito. Una settimana dopo la Fiat ha annunciato la chiusura. Ed è allora che è successo quello che nessuno si attendeva, i lavoratori, le famiglie, il sindaco, il prete, tutto il paese di Termini e il circondario sono scesi in piazza. I politici hanno dovuto recuperare goffamente. «Il consiglio comunale occupa il comune», c'è scritto sul municipio. Quattro parlamentari della Casa delle Libertà , compreso il viceministro e coordinatore regionale di Forza Italia, Gianfranco Micciché, hanno sottoscritto un documento in cui si impegnano a non votare la finanziaria. Un impegno dimenticato in Parlamento. Solo il sindaco forzista Luigi Purpi ha saputo prendere in mano la situazione sospendendo i pagamenti delle tasse municipali e cercando una via di uscita con Gianni Letta. Ma non è lui il leader della protesta. La gente si è naturalmente stretta attorno a Roberto Mastrosimone, segretario territoriale della Fiom-Cgil. Alle ultime elezioni ha preso 120 voti, contro i 20 del secondo. Quarant'anni, da 14 in Fiat, un sindacalista fuori dai cliché. Bocciato alla maturità, una giovinezza passata a tirar tardi nelle notti palermitane cogli amici che ora si trova accanto alla catena di montaggio. Roberto Mastrantonio, veste alla moda, la camicia a righe trasversali botton down e le asole in tinta, le scarpe nere in stile babbuccia, che subito lasciano il posto alle Nike Air se c'è da marciare, con la camicia jeans fuori dalla cinta. Le giornaliste se lo mangiano con gli occhi e la moglie soffre tenendo per mano il bimbo di otto anni. Il suo modello è Sergio Cofferati ma la politica non gli piace, eppure è un gran politico. Nonostante il boicottaggio di settembre, ha subito stretto la mano al collega della Fim, Vuono e col segretario locale della Uil, Vincenzo Comella, ha formato un triumvirato inossidabile.

"I pentiti" li chiamano gli operai della Fiom. Lui fa finta di non sentire. Le sigle non contano. Questa non è una lotta operaia. È la rivolta di un paese anzi di un circondario, che va da Cefalù a Palermo, senza speranza né alternativa. Si parte ogni giorno puntando un obiettivo più alto: il porto, l'aeroporto, lo Stretto. Organizzati nei turni come in fabbrica, dalle sei alle 14 e dalle 14 alle 22. Le donne hanno formato un coordinamento e hanno ritirato le schede elettorali di 5 mila persone per usarle come arma di pressione sulla politica. Sono diplomate, vestono elegantemente e se c'è una cosa che le manda in bestia è l'immagine trasmessa da "Ballarò" in televisione della femmina siciliana in nero dietro la porta. Silvana Bona è la coordinatrice. Ma chi mette i soldi? L'arciprete Ciccio Anfuso, vero segretario amministrativo e finanziatore della rivolta. È lui a firmare gli assegni per i pullman e i panini, con i soldi delle offerte. L'altro giorno il vecchio Lagostina, quello delle pentole, gli ha scritto offrendo una mano. Don Ciccio scrive a Berlusconi e si fa carico di chi ha le finanziarie alle calcagna. Martedì ha denunciato il rischio usura al prefetto di Palermo Renato Profili, e non parlava per sentito dire.

Profili e le forze dell'ordine sono un altro puntello delle manifestazioni. È stato il prefetto a mettere a disposizione il treno per bloccare lo stretto di Messina. Una contraddizione che dimostra la consapevolezza del dramma e la sua lungimiranza. A Messina il Questore bloccava le macchine al posto degli operai. Un deputato come Beppe Lumia, dei Ds, che compra di tasca sua, lontano dalle telecamere, 300 panini e lontano dai flash, si fa trovare alle tre e mezza di notte alla stazione dei treni per dire buon viaggio ai suoi ex compagni di scuola.

Ma appena esci dalla Sicilia la musica cambia. Il 13 novembre a Napoli s'è tenuto un coordinamento dei rappresentanti sindacali di tutte le fabbriche Fiat. Gli operai di Termini, appoggiati dal segretario della Fiom regionale Claudio Sabattini, volevano il blocco simultaneo della produzione da Arese a Mirafiori, da Pratola Serra a Termoli, fino a Melfi. Nei piani concordati da Fiat e Gm ci sono due stabilimenti che certamente non chiuderanno: Pratola Serra dove si producono i motori che fanno gola agli americani e Melfi, con i suoi bassi costi del lavoro. Ma proprio Melfi, dove si producono le stesse Punto di Termini, con ritmi massacranti e stipendi più bassi, ha scioperato solo un giorno. Mors tua vita mea. Se Termini vince e resta aperto saranno Melfi e Mirafiori a dover rinunciare a una fetta di produzione. E allora si comprende perché Termini ha un nemico imbattibile. Non sono gli operai di Melfi. Spiega don Ciccio Anfuso, «Neanche se intervenisse il Papa vinceremmo. Perché in questa terra comanda un Dio cattivo e superiore: il mercato». E si mette la mano davanti alla bocca come avesse detto una bestemmia.

 
 

         

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